Il monologo che una donna rilascia ai giudici di una corte immaginaria – una deposizione a propria difesa ma anche l’attacco a una società incapace di ascolto – e una riflessione sulle ambiguità del linguaggio.

La donna che parla in questo testo non può darsi e affidarsi che alle parole. Accusata di essere una assassina in serie, una specie di Barba blu femmina, le parole, qui, in tribunale, sono l’unica arma con cui lei possa difendersi. Dice la verità? Il lettore non è messo in grado di conoscerla chiaramente e distintamente, la verità. Se ne avrà voglia, dopo aver letto il testo, potrà fare una scelta. Potrà scommettere a favore o contro la donna che ha parlato. Potrà, in qualche modo, deciderla lui, l’identità di questa donna. Ma potrà anche sospendere il giudizio, lasciando che la protagonista rimanga indecisa, persa nel mare di quelle che potremmo chiamare le possibilità della sua vita -del testo. A meno che questo testo, con i due discorsetti finali (uno pensato per essere detto dopo un’eventuale assoluzione, l’altro dopo un’eventuale condanna) non sia altro che una specie di lungo lamento tenuto su da qualche storia. Un lamento detto, recitato (cantato, anche: melodramma con ironie e ritegni…) non soltanto allo scopo di auto-consolarsi ma anche allo scopo di piacere, comunque, a tutti i costi, a qualcuno. E, dunque, un lamento animato da una buona dose di inverosimile vanità, nonostante tutto. Come pare che càpiti piuttosto spesso.