In questo romanzo, come per L’Opera e La tempesta abbiamo tra i protagonisti un giornalista che osserva e documenta fatti di cronaca, di vita. “Sibilla, la protagonista, non è solo attrice per una notte di fronte al giornalista (e ad altri tre spettatori addormentati, nonchè al cadavere del compagno), ma è stata nella sua vita un’attrice professionista – spiega Mauro Bersani nell’introduzione al romanzo edito da Einaudi – così, in quella che ha tutti gli aspetti di un’ultima recita, parla anche del teatro, di quello che si è fatto in Italia negli anni Quaranta. (…) Si aggiunga che il romanzo ha un prologo in cui viene rievocato un ragazzino appassionato di cinema (…). In queste febbricitanti esperienze in un cinemino di prima della guarda il ragazzo capisce per la rpima volta, e per sempre, che “la rappresentazione del mondo è un gioco di rifrazioni tra buio e luce”. Cinema e teatro sono in fondo lo stesso artificio che rende immediata la dialettica tra sogno e realtà, un gioco di specchi in cui esplodono l’immedesimazione, lo spaesamento, l’identità, il vero e il falso, il profondo e la superficie. L’anima teatrale è fondamentale per la scrittura di Tadini anche per una pressocchè totale “fede” nella potenza dell’oralità. (…) La lunga notte è dunque l’aristotelica unità di tempo in cui si svolge il racconto di Sibilla (l’unità di luogo è la sontuosa villa sul algo di Como dove l’attrice vive dalla fine del 1943, quanto il Comandante l’ha acquistata per poch soldi da prorpietari ebrei promettendo loro falsamente l’espatrio). Ma è anche la “lunga notte” dell’Italia sotto il fascismo. Il romanzo è uno dei libri più belli e profondi che siano mai stati scritti”.

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da Autodizionario degli scrittori italiani 

Emilio Tadini scrive su questo romanzo:

 

«Seguendo le tracce di un tesoro che sembra sia stato abbandonato alla fine della guerra dall’esercito tedesco in ritirata, un giornalista arriva sul lago di Como, nella villa di un ex gerarca fascista. Ma il gerarca è appena morto. E in una lunga notte, Sibilla, la sua vedova, ne racconta la storia. Una specie di poema, secondo le sue intenzioni. Ma poema o cronaca, anzi, cronaca nera che sia, in questa storia del comandante c’è, bene o male, anche la storia dell’Italia, dal primo fascismo fino ai giorni nostri. La Roma degli anni prima della guerra, la Milano della Repubblica di Salò e dei giorni della Liberazione… Qui, poi, a proposito della Milano di quel periodo, il giornalista “raddoppia” il racconto di Sibilla ricordando i suoi ricordi di ragazzino: un aprile sfolgorante in cielo e in terra, le luci che si riaccendono di colpo dopo tutto quel nero, dopo quella specie di interminabile passaggio attraverso le strade e le case di una città infernale… Come se il racconto si sforzasse di rifondare miticamente una realtà, una città… E nel racconto del giornalista entra in scena una specie di soggetto collettivo».

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Stralcio del romanzo

“Per tutta via Porpora, che è abbastanza lunga, c’eravamo soltanto noi. Io, che mi ero fermato. E, sull’altro marciapiede, un giovane, con una ragazza appesa al braccio. Lui era in divisa delle SS italiane. Teneva il mitra impugnato a due mani. Lo teneva inclinato, stretto contro il petto. Aveva un’aria terrorizzata, feroce. Ma camminava adagio, tutto intento, come se ogni passo dovesse rimettere insieme quella specie di fragile e vulnerabile spavalderia da condannato… Senza correre, senza scappare. Andavano verso la periferia, verso Lambrate. La ragazza stava per piangere.

Li avranno fatti a pezzi, probabilmente, prima ancora che arrivassero alla stazione. Perché dopo un minuto, due minuti al massimo, dalla parte di piazzale Loreto, verso corso Buenos Aires, ho sentito gridare, e, subito dopo, un brontolio da terremoto, come un respirone tirato dentro da un milione di polmoni tutti insieme, un risucchio da uragano, e mi sono messo a correre, e quando sono arrivato a Loreto la piazza era già tutta piena di gente, stracolma, e anche in via Porpora, alle mie spalle, tirava quella specie di vento a rovescio, da gigantesco aspirapolvere, e c’era già, di colpo, tutto un corteo disordinato – come se mi venissero dietro, proprio dietro a me, dico…

Eppure un momento prima non c’era nessuno, e io mi ero messo subito a correre più forte che potevo. E allora, dal punto di cui io mi ero fermato a guardare quei due disgraziati, da lì a Loreto, ci avrò messo un minuto o due, non di più. Com’era possibile che tutto quel mare di gente si fosse alzato in così poco tempo? Forse avevo arrancato per una buona ora almeno in qualche sospensione, forse mi ero perduto… O forse è che il ricordo drammatizza – che la memoria vuol fare impressione… O perde qualche colpo, ogni tanto. Più probabile.

Eppure… Insisto! Eppure… Il tempo di girare la testa… Io vedo il giovane in divisa, con la sua ragazza sottobraccio, che si allontana in via Porpora, e poi mi volto, e mi metto a correre… Ecco, il tempo di una corsa! Finché, correndo – non più di un minuto o due – arrivo a piazzale Loreto, pieno di gente… Ancora piazzale Loreto… E li vedo, là in fondo. Appesi alle travi di ferri della tettoia sopra il distributore di benzina… Appesi per i piedi. Mussolini e gli altri. Ombre nere – fagotti che dondolavano… Vedo le corde…

Strisciavo lungo il muro, a sinistra, dove c’era l’albergo. Strisciavo tra il muro e la gente. Continuavo a guardare – quel poco o niente di inferno che ormai potevo intravvedere fra una testa e l’altra… Ma intanto andavo avanti, un passo dopo l’altro, faticosamente, schiacciato contro il muro. Manifesti rinsecchiti si squamavano contro la mia faccia.

Tutte le strade che portavano a Loreto erano piene di gente. Viale Abruzzi, corso Buenos Aires, via Andrea Doria, viale Brianza, viale Monza, via Padova, via Leoncavallo, via Porpora… Chi era nella piazza non poteva più andar via, costretto com’era da tutti quelli che continuavano a venire.

“Entrerò nel portone dell’albergo…” pensavo. Tirare il fiato, almeno! Ma il portone era chiuso. Chiacchieravano, sopra la mia testa. Rimbombavano commenti sulla scena. Le nuvole si aprivano, e: parole! Un milione di lingue che tuonavano…

Dài, striscia ancora! Dieci, quindici metri… Incominciavo ad avere paura. Non per i dondolanti. Per la gente. Cercavano a tutti i costi di strapparmi dal celebrato abbraccio della folla. Mi dibattevo con tutte le mie forze, per liberarmene, da quel maledetto abbraccio. Con tutte le mie forze e le mie astuzie.

Così, con la tragedia e la storia proprio sotto il naso, io pensavo solo a strisciare per cercare di battermela e basta. Mille passi da formica… E anche se nessuno poteva sentirmi, con la mia povera vicina beneducata adesso io dicevo: «Permesso…»

Emilio Tadini, La lunga notte (Rizzoli 1987-Einaudi 201o)