Il giorno dell’inaugurazione di una mostra a lui consacrata, il pittore viene trovato morto nel proprio studio. Tocca a un giornalista dare la notizia attraverso il quotidiano in cui lavora e indagare sul caso. Non siamo davanti a un giallo nè a un romanzo a chiave, anche se la proiezione dell’autore all’interno del libro non può non essere un richiamo per il lettore; ma soprattutto a una storia di contraddizioni. Un critico d’arte ha puntato tutto sulla realizzazione di un grande progetto artistico, un giornalista è alla ricerca, attraverso i fatti che indaga, di un spiegazione la più ampia possibile; è, per tutti e due, di fronte a queste grandi attese stanno i piccoli fatti quotidiani, la piccola applicazione degli avvenimento. Soltanto al giornalista, ad un certo punto, sarà “elargita la veritaà”, come un dono alla sua attività di artigiano vittima di molte emozioni. Allo stesso modo il libro gioca vari piani di scrittura: Il parlato del narrante, ma pieno di artifici, con una struttura metrica nascosta sotto la dimessa formulazione di questo stile basso; il linguaggio della cronaca giornalistica; le formula della critica e quelle che il critico si è inventato in nome dell’artista. Tutte spie del fatto che verosimiglianza e inverosimiglianza si incalzano, moltiplicandosi a vicenda lungo tutto l’arco di un racconto in cui non mancano i colpi di scena, e la cui ambizione maggiore è di mescolare le intenzioni più ricercate una leggibilità piena e divertita.


Stralcio critico tratto dall’ opera letteraria di Emilio Tadini di Giacomo Raccis (leggi tutto)

“L’Opera si mostra fin da subito come romanzo incentrato su una riflessione metaletteraria, che può essere interpretata come espressione tanto di un’ambizione seria a realizzare la vera “opera totale”, capace di sostituirsi alla realtà, se non addirittura di farsene origine, quanto di un atteggiamento ludico e parodico nei confronti di quello stesso progetto, che d’altra parte è tema, e non struttura, del romanzo e che, complici anche i toni comici e grotteschi, non può che sfociare nel fallimento. In bilico tra il sospetto di una realtà che si smaterializza sotto i colpi della scrittura e la consapevolezza
dell’inconsistenza ludica (per quanto il “gioco” possa arrivare a provocare la morte di qualcuno) dell’assurdo progetto artistico, si potrebbe dire che L’Opera, nel tentativo di mettere in contatto queste contrastanti spinte, rappresenti una classica manifestazione di quel romanzo postmoderno a forte componente metaletteraria (o quantomeno metacritica) di cui Calvino aveva fornito il modello più noto.
A sostegno di una simile ipotesi porta argomenti interessanti la recensione che Giuliano Gramigna pubblica sul «Corriere della sera» il 19 ottobre 1980, a pochi giorni
dall’uscita del romanzo. L’Opera (con la maiuscola) cui fa riferimento il titolo, è l’opera della Scrittura –
altra maiuscola magari fastidiosa ma indispensabile. La spiegazione, il movente del
delitto è né più né meno che il potere della Scrittura, atto che “nomina” il vuoto,
che riempie il vuoto di forme semplicemente “nominandole” 80″.